sabato 20 agosto 2022

Recensione a “La vita nascosta” di Felice Serino Di Donatella Pezzino



Il poeta: sognatore, visionario, angelo caduto. Nel caso di Felice Serino, anche viandante. La cui strada sta in quella sottile zona intermedia tra il mondo sensibile e la dimensione trascendente. Per questo viandante, la vita stessa è viaggio; una ricerca continua e instancabile, un afflato spirituale, prima ancora che lirico, verso quell’oltre che ogni realtà sembra sempre celare in sé. Non a caso, “La vita nascosta” è il titolo della pluriennale raccolta di liriche nelle quali, dal 2014 al 2017, l’anima del viandante si è voluta raccontare, riversare, svelare: nelle dolcezze dell’attimo, negli inciampi sotto la pioggia battente, nei vuoti incolmabili, nelle domande senza risposta; nei lunghi dialoghi con sé stessa e con Dio. Questo è Felice Serino, fine artigiano di sogni reali e di realtà sognante, aedo di una dimensione parallela in cui tutto parla con il linguaggio perfetto, intellegibile solo all’anima: il silenzio. E in Serino il silenzio racconta i ricordi, le lotte, gli affanni segreti; facendosi racconto di un lungo percorso verso    quel punto luminoso e vitale che, lungi dall’essere il punto d’arrivo, diventa abbandono catartico. In questo percorso, l’anima errante si fa parola, e parola silenziosa; in quella contemporaneità di passato, presente e futuro che è, in fondo, la vera estensione del nostro vissuto. Come ogni silenzio, anche la parola silenziosa di Serino è coincidenza di opposti: tutto e niente, vita e morte, trascendenza e immanenza, carne e spirito. In quanto tale, ogni parola è un infinito: di voci, di suoni, di odori; di ricordi, di percezioni; di gioie incontenibili e di dolori laceranti. Quante cose quindi potrà raccontare? Quante potrà fare emergere dal cuore di chi sa ascoltare? Per questo, in Serino l’autore si fa, più che creatore, scultore del verso: uno scultore sensibile e amorevole, che rivela, sbozza, combina forme e sfumature; senza mai eccedere, perché la bellezza, così come la verità, sta sempre nel giusto, nell’armonico, mai nell’eccesso. Ecco perché ogni poesia di questo autore spicca per la sua moderazione: nei colori soffusi, quasi un bianco e nero appena rosato; nel numero dei versi, pochi e intrisi di dolcezza, anche quando in essi è il grido dirompente, lo strazio esistenziale, la malinconia che corrode. Un fiore esangue, spampanato già al suo sbocciare: perché nei suoi colori, l’occhio dell’anima vede già come fatto compiuto quel trascolorare che della morte ha solo l’apparenza, ma che in realtà manifesta la vera essenza della vita. Lo spirito: ecco la dimensione nella quale tutta la poesia di Serino si fa carne e sangue, per sublimare poi nella fede ciò che per altri è destinato a rimanere puro male di vivere. In Serino, la coscienza del dolore è ferita aperta: viva, bruciante, inguaribile. Eppure, il dolore è luce. Che ci guida, che ci sostiene. E che pure è possibile amare:


pure

ami la luce

ferita:


chiedile

delle infinite crocifissioni


fattene guanciale

in notti di pianto


Una fine che è dentro ogni inizio: perché andare avanti è un guardarsi indietro, dove uno specchio moltiplica all’infinito le nostre contraddizioni:


Luce ed ombra rebus in cui siamo

impronte di noi oltre la memoria

forse resteranno o

risucchiati saremo

ombre esangui nell'imbuto

degli anni


guardi all'indietro ai tanti

io disincarnati

attimi confitti nel respiro

a comporre infinite morti


C’è ovunque, in questo voltarsi indietro, un forte senso delle cose perdute: non puro e semplice rimpianto, ma quasi una cancrena, cresciuta nella parte più nascosta del cuore per poi radicarsi    in ogni punto della carne, fino a creare un velo tra noi stessi e la nostra capacità di rapportarci al presente:


pensando a te vedo

il vuoto di una porta

e dietro la porta ricordi

a intrecciare sequenze indistinte

sogni e pensieri asciugati

mentre un sole

di sangue s'immerge nel mare


Il presente, in questo senso, si configura come una lunga sequenza di déjà-vu, intrecciando il vissuto alla memoria, e le immagini dei luoghi sognati a profumi realmente accaduti:


del luogo sente quasi il profumo

salire dalla terra

lo spirito che si piega

a contemplare


gli sembra di esserci già stato

o forse l' ha sognato

... e quell'albero vetusto

sopravvissuto

a suo padre a fargli ombra

a occultargli

in parte l'ampia veduta

del mare quello stesso mare

che vide i suoi verdi anni


e il vissuto

(come in sogno) divenuto

lontana memoria


Il mare, la terra, la giovinezza; la visione, il ricordo, e poi, più profondamente, la coscienza di sé, nuda, scarna. Un sé da cui la morte, prima ancora che la vita ci abbia detto chi siamo, ci separa, ci libera, stemperandoci amnioticamente nelle acque di un cielo in cui la rinascita è al tempo stesso un ritorno. 


alla fine del tempo

è come ti separassi da te stesso

in un secondo ineluttabile strappo

simile alla nascita

quando

ti tirarono fuori dal mare

amniotico

luogo primordiale del Sogno

stato che

è casa del cielo


Nella morte tutto, forse, sembra acquisire un senso nuovo: perché in quel distacco, paradossalmente, il mondo ci possiede come mai quando eravamo in vita:


ritenere antinomia

la morte - la tua


come un abbaglio o un

trapassare di veli


e nel distacco

quando

il mondo senza più te sarà

impregnato della tua essenza


" leggerai" il tuo

necrologio

pagato un tanto a riga


Non manca, in queste liriche, l’appello al sogno come via di salvezza dalla più scabra disillusione: ma lo scandaglio, minuzioso e severo, sembra non avere esito certo. La domanda resta appesa; gli anni a tremare, indistinti, nella loro stessa ombra. E’ l’indefinito, uno dei motivi più forti e pregnanti di tutta l’opera: quel punto cartesianamente evidente, chiaro e distinto, l’unica verità delle cose che, in ultima analisi, ci è data di conoscere.


è nello spazio delle attese

nel bianco del foglio

nel buco nero del grido di munch


l'indefinito

è nell'aprirsi del fiore

nel fischio del treno in un lancinante addio

nell'intaglio

dello scalpello su un marmo abbozzato


l'indefinito è in noi

sin dallo strappo

di sangue della nascita


Non esiste antidoto alla nostra piccolezza, alla nostra finitezza: tutte le riflessioni, anche le più raffinate, ci portano sempre allo stesso vicolo cieco, alla stessa prigione di carne e sangue dove lo spirito soffre, ricorda, ama. Per questo il viaggio, seppure inquieto e periglioso, è preferibile alla quieta stasi di una stanza chiusa: “forse meglio l'attesa/a dipanare e sdipanare le ore/che l'appagamento/senza più desideri”, perché il bisogno di desiderare è insito nella stessa condizione umana; quasi come l’atto del respirare, in cui un respiro ne attende un altro, e poi un altro ancora, per permettere al corpo di continuare a vivere. E’ questa attesa che rende l’uomo, pur nella sua limitatezza, arbitro del suo destino; all’interno, però, di un disegno più grande da cui Serino, in quanto uomo di spirito e di fede, non può prescindere:


chi mai ti toglierà quel posto

da Lui riservato

secondo i tuoi meriti

altro è la poltrona

accaparrata a

sgomitate

trespolo che pur traballa

come in un mare mosso

finché uno tsunami

non la rovescia la vita


Chi è il Dio di Felice Serino? Da un filosofo, costantemente proteso al fine lavoro speculativo, potremmo forse aspettarci qualcosa di complesso, di aristotelico, che ci spieghi in qualche modo i grandi quesiti dell’esistenza. Invece, il Dio di Serino è amore. Solo e semplicemente amore, e conoscibile in quanto la nostra anima ne costituisce il riflesso: 


noi siamo proiezione di Dio

e come angeli incarnati

del nostro Sé

similmente di noi

i nostri figli


-frecce scoccate oltre

il corpo

dall'arco teso dell'amore



E’ il Dio dell’infanzia, della semplicità: dei lunghi colloqui del bambino con il proprio angelo custode, della vita dopo la morte, dell’eternità di quella Luce che culla e conforta l’anima alla fine del viaggio:


la Tua luce

abita la mia ferita

che trova

un lieto solco

nel suo risplendere


Tu

a farti bambino ed ultimo


per accogliere

il nomade d'amore

dalle aperte piaghe 


Piaghe che rimandano ad altre, più profonde e traboccanti: le piaghe della Passione, il cui rosso sangue diventa, come l’ultima luce del cielo al tramonto, faro di salvezza per le anime disperse nei marosi della vita:


acqua mutata in vino

perché continui la festa


così al banchetto del cielo

con l'Agnello sacrificato

acqua e sangue dal Suo costato

dal sacro cuore vele

le vele rosse della Passione

nella rotta del Sole

per gli erranti della terra


E, seguendo questa rotta, si arriva; come è accaduto alle anime piccole che hanno creduto, e che chiudendo gli occhi hanno visto, attraversando il fango del mondo senza restarne macchiati, come espresso in questi versi dedicati a Madre Teresa: 


la verità è il tuo sangue

che vola alto

planando

su celestiali lidi


oltre


le sere che chiudono le palpebre

sul cerchio opaco del male



http://poesiaurbana.altervista.org/recensione-donatella-pezzino-la-vita-nascosta-felice-serino/

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